Breaking
Ad
Ad
Ad
CALCIO

La nuova Champions e la vittoria per diritto divino

Google+ Pinterest LinkedIn Tumblr

L’ormai prossima riforma della Champions League ha tra i massimi fautori il presidente della Juventus e presidente dell’Eca (l’associazione dei club di calcio europei) Andrea Agnelli, molto attivo, come del resto la società che rappresenta, quando si tratta di spingere verso le riforme nel mondo del calcio.

È nota a tutti gli appassionati del cosiddetto “calcio minore” la battaglia che Andrea Agnelli ha portato avanti per l’introduzione delle seconde squadre delle società di serie A nel campionato di Lega Pro. Una riforma che, alla fine dei conti e al di là di ogni considerazione più o meno di parte di giornali ed addetti ai lavori, ha oggettivamente soddisfatto solo l’esigenza della società torinese di perseguire le proprie strategie organizzative, non emulata fin’ora (e per fortuna) da nessun’altra società di serie A.

Una novità da sempre mal digerita dalle tifoserie delle squadre di provincia, abituate a subire la (pre)potenza dei grandi clubs di serie A, a volte capaci anche di spostare il confine del regolamento con interpretazioni restrittive o espansive sia dentro che fuori dal campo di gioco.

E mentre in Italia da anni si discute di una riforma dei campionati per garantire una migliore sostenibilità del sistema (?!), l’obiettivo principale di Andrea Agnelli è invece un ripensamento totale della Champions League, trofeo diventato una vera e propria ossessione per la società bianconera, reduce dall’ennesima delusione nel doppio confronto contro il Porto, con una clamorosa quanto imprevedibile eliminazione agli ottavi.

Se l’idea di base è sempre quella di una sorta di Superlega Europea (più volte minacciata per indurre la Uefa ad atteggiamenti più concordanti) che comprenda quasi per diritto divino i clubs più titolati (e ricchi) del continente, alla fine le trattative con i massimi vertici del calcio europeo hanno sortito una soluzione a metà tra la tradizione e l’innovazione, con 36 squadre che si ritroveranno in un unico girone ed un regolamento cervellotico (con unica classifica generale che comprenderà squadre che… non s’incontreranno) atto ad aumentare il numero di gare (e quindi la possibilità di accedere a maggiori introiti di TV e sponsor) e ridurre il rischio di eliminazione precoce per le società più importanti. Un po’ lo stesso motivo che ha portato i campionati delle maggiori Leghe europee (Inghilterra a parte per tradizione, Spagna, Italia e Francia con l’unica eccezione della Germania) ad allargare i propri organici negli ultimi anni.

Una riforma che dimostra ancora una volta (se ce ne fosse il bisogno) come chi gestisce il calcio non abbia alcuna considerazione dei reali interessi della gente tifosa o semplicemente appassionata, a qualsiasi livello, di questo sport.

L’iper-esposizione del calcio in TV e l’ingolfamento dei calendari con partite a tutte le ore di ogni giorno della settimana, ha già procurato numerosi danni, soprattutto alle società minori, ancora legate per la maggior parte dei propri introiti agli incassi da stadio. Ma non è assolutamente quest’ultimo il punto focale della questione.

La peculiarità delle Coppe europee resta l’adrenalitica sensazione che procura il doppio confronto ad eliminazione diretta, tanto che ancora oggi sono gli incontri dagli ottavi in poi a suscitare il massimo interesse tra il pubblico, anche quello non direttamente coinvolto da fede calcistica. La fase a gironi è l’antipasto, è quella ad eliminazione diretta la portata principale.

Ma per i più ricchi e potenti, l’unico obiettivo è salvaguardare i propri investimenti, limitando al massimo le sorprese. Tentativo inutile, la storia recente ha dimostrato che la via maestra può e deve essere competenza e programmazione e non solo la capacità di spendere. Dal Milan di Berlusconi, la cui spina dorsale per vent’anni è stata un gruppo di giocatori cresciuti in società ed una organizzazione moderna all’epoca avanti rispetto alle concorrenti, al dominio delle spagnole, Barcellona e Real in primis, basato su tanti soldi ma anche “cantere” ed un calcio innovativo che ha reso grande anche la Nazionale, al Bayern, società dalle scelte oculate di mercato e contraria ai contratti faraonici ma sempre ai vertici. L’Ajax (5 Champions) continua a vincere puntando sui giovani, arrivando due anni fa a pochi secondi da una clamorosa finale con una banda di ventenni.

Per finire al calcio inglese, unici ad aver trovato la formula giusta nella loro Premier League, il campionato più venduto al mondo, anche più della Champions: il segreto sta nella competitività dei clubs, inondato dai capitali stranieri, attratti dalla mentalità del calcio d’oltremanica, fatta di senso d’appartenenza e merito sportivo. Un prodotto è più appetibile se c’è competizione, un sicuro ritorno economico dall’investimento, dovuto ad un’equa distribuzione dei proventi TV ed una possibilità di vittoria non preclusa a nessuno. Ne è stato l’esempio massimo il Leicester di Ranieri.

Una ricetta che evidentemente in Italia non piace a chi pensa di dover vincere sempre e comunque. Eppure è stata prerogativa anche della serie A tra gli ’80 e ’90, quando lo scudetto lo vinsero anche il Verona e la Sampdoria. Proprio quando il campionato italiano era definito “Il più bello del mondo“..

Write A Comment