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CALCIO

Italia campione, il trionfo di Mancini

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L’Italia è Campione d’Europa.

Una vittoria meritata per come è maturata, tra mille difficoltà. La ricostruzione dalle macerie del mancato mondiale del 2018, ha avuto il suo epilogo migliore, forse anche oltre ogni più favorevole previsione.

Vittoria meritata perché giocata a Wembley davanti ad uno stadio colmo come un uovo d’inglesi, convinti come sempre di esserci superiori, anche dopo 71 anni di calcio (tanti ne sono passati dalla loro prima partecipazione ad un mondiale, nel 1950) nei quali restano aggrappati all’unico trionfo, quello del celeberrimo gol fantasma di Hurst nel ’66.

La Regina era la stessa di oggi. E l’Italia uscì contro la Corea del Nord. Una Nazionale, quella Azzurra capace di imprese memorabili. Nel bene e nel male.

L’Italia è quella.
Vince quando è più complicato, difficile, quando è sfavorita. Vince perché nel momento peggiore tira fuori un di più, una risorsa che gli altri non hanno, il saper soffrire e portare a casa il risultato, comunque. Le altre vincono quando sono indubbiamente le più forti. L’Italia al contrario, fallisce quando ha il pronostico dalla sua, quando in squadra vi è un surplus di talento non accompagnato dalla dedizione totale al sacrificio, dalla fame di rivalsa, dalla voglia di emergere.

L’Italia di Mancini è paragonabile alle altre vincenti, quella del Mundial ’82 e del trionfo del 2006. Rognosa, un mix di esperienza, umiltà, qualità tecnica sottostimata.
Una Nazionale che come le precedenti vince dopo un evento oltremodo negativo: fu il Totonero nel 1980, Calciopoli nel 2006, la mancata qualificazione al Mondiale nel 2018.

Una vittoria arrivata ai rigori, ma in una gara partita malissimo con lo 0-1 dopo solo 2′, rimediata con una ripresa a senso unico e portata in porto nonostante gli infortuni di Chiesa ed Insigne nel finale di gara.

È il trionfo assoluto di Roberto Mancini, vero artefice di questa rinascita, che ha dato un’impronta di gioco alla sua squadra sfruttando al massimo il materiale a disposizione. Una squadra che non rinuncia mai a giocare, puntando sul collettivo, senza integralismi controproducenti. Qui entra in gioco inevitabilmente il suo passato da fantasista, termine ormai in disuso, con la conseguente consapevolezza dell’impossibilità d’ingabbiare il talento dei tanti trequartisti, liberi d’inventare e cercare la giocata, alternando l’iniziativa personale al gioco corale con tocco di prima. Un trionfo nello stadio che lo vide sconfitto immeritatamente in quella finale di Champions nel 1990 con la Samp, con l’abbraccio al fischio finale all’amico di sempre Gianluca Vialli, protagonista quest’ultimo di un difficile percorso di vita.

È la vittoria di una grande difesa, diretta magistralmente dalla coppia collaudata Bonucci-Chiellini, la migliore del torneo, garantita da un Gigio Donnarumma monumentale, non solo in occasione dei rigori.

È la consacrazione di molti elementi che hanno dimostrato al mondo di valere quanto i più celebrati top-player, con menzione particolare per lo sfortunato Spinazzola, per Chiesa, Berardi ed Insigne, per il trio titolare di centrocampo, Verratti-Jorginho-Barella.

È la vittoria dei cosiddetti gregari, coloro che hanno giocato di meno ma che hanno risposto alla grande quando chiamati in causa, come Locatelli, Emerson, Bernardeschi.

Difficile trovare un neo quando si vince, ma è chiaro che l’unica pecca si è avvertita nella coppia di centravanti Immobile e Belotti, con il primo che ha pagato probabilmente una forma fisica in fase calante dopo un buon girone di qualificazione, mentre il secondo involuto rispetto alle annate precedenti, forse a causa della pessima stagione del suo Toro.

Ci sarà tempo, per loro, per rifarsi. Da Campioni d’Europa, però.

Foto in home corriere dello sport (getty images)

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